“La guerra” di Giuseppe Delle Vergini

Ecco un mio racconto, dedicato a mio nonno, il maestro Giuseppe Miscio, Medaglia di Bronzo al Valor Militare nella Prima Guerra Mondiale, carneficina che finiva esattamente cento anni fa. Mio nonno è stata una persona mite, allegra, di compagnia. I suoi ex alunni spesso mi hanno fermato per raccontarmi di quanto era bravo e sorridente. Mi sono sempre chiesto come abbia fatto, dopo aver vissuto quella tragedia che fu il primo conflitto mondiale, a restare così. Probabilmente era gente fatta d’altra tempra. Questo racconto è dedicato a lui e a tutti quelli che sono passati e caduti nelle trincee del Carso o sul Monte Grappa o altrove. Per ricordare a tutti che la pace è il più grande dei valori che dobbiamo coltivare. Sempre e ovunque. Allego anche una foto mai pubblicata, carica di Storia che lo ritrae seduto sulla sinistra, lui sottufficiale, con al fianco un commilitone con il Corriere delle Sera del 4 novembre 1918, cento anni fa. Tutti quei ragazzi, perché erano solo dei ragazzi poco più che ventenni, si erano salvati da quella carneficina e sarebbero tornati prima o poi sani e salvi a casa loro. Così come avvenne per mio nonno.
Giuseppe Delle Vergini

LA GUERRA

Ora che sento la vita concludersi – so che mi attende in fondo alla via per un lungo viaggio, il più importante, per congedarsi – voglio dirti una cosa, ragazzo mio.

Quando sei nato era un giorno di primavera e la natura con i colori dei suoi fiori e un cielo azzurro sembrò farti festa. C’erano le rose nel giardino della nuova casa. Fui contento, perché sapevo che avresti portato il mio nome. Ne ero fiero e, se puoi, cerca di esserlo anche tu. Ti ho visto crescere e diventare grande, giocare e recitare le prime poesie di Natale. Ti ho visto curioso, e tutte le tue domande: “Nonno, nonno, raccontami qualcosa!” mi facevano sorridere e capivo che la mia vita non era poi stata inutile. E mi hai pure chiesto della guerra. Ti piacevano le mie foto color seppia con la divisa da soldato, il cappello e la sigaretta in mano. Con occhi grandi guardavi le medaglie, quella rotonda, quella a croce, quella di bronzo. E volevi che si sfogliasse insieme il polveroso Albo d’oro, dove, tra tanti sbiaditi visi che sapevano di antico, c’era anche il mio. Mi facevi leggere la motivazione della medaglia ad alta voce e diventavi serio mentre io leggevo: “In combattimento dava prova di coraggio e sprezzo del pericolo adempiendo sempre lodevolmente il proprio dovere sotto vivo fuoco nemico. Saputo che il suo comandante di battaglione correva rischio di essere fatto prigioniero concorreva assieme ad altri coraggiosi a disperdere gli assalitori ed a liberare il comandante stesso”. Carso 19-22 Agosto 1917. E tu che continuavi a chiedermi delle battaglie, delle trincee, degli austriaci. Li immaginavi con la divisa bianca, con le piume sul cappello e i pantaloni blu, come erano disegnati sul tuo sussidiario delle elementari.

La guerra.

Avevo diciannove anni e mi rimisero la divisa di panno verde addosso. Si andava tutti a liberare Trento e Trieste, e noi, nella nostra giovane e spensierata età senza viaggi, partivamo baldanzosi e imbottiti di retorica. Combattere per Trento e Trieste, per “trentatré bestie” come dicevano le nostre mamme, nella loro semplicità, con gli occhi umidi e il cuore triste. Loro sapevano che non era una passeggiata, che non era una bella avventura, che la fame sarebbe stata più nera, come gli abiti che presto avrebbero rivestito il loro dolore di vedove o di madri. “Per trentatré bestie i soldi possiamo raccoglierli noi e dargli agli austriaci e all’Imperatore”. La loro ignoranza, la loro saggezza avrebbero voluto salvarci da una morte sicura. Servivano braccia per coltivare i campi e raccogliere il grano, le olive, le mandorle. Servivano braccia per lavorare, non per fare la guerra. Volevano giovanotti per le loro figlie, non vedove di guerra, con la foto ritoccata alla parete e sotto il lumicino rosso. Il giorno prima di partire andai a piedi al convento dei Cappuccini e recitai una preghiera alla Vergine delle Grazie e vidi il frate che già dicevano santo. Ero un soldato del 17° Reggimento di Fanteria. Il giorno di Santo Stefano del 1916, dopo tre mesi che ero stato richiamato alle armi, ci dissero che si andava in territorio dichiarato in stato di guerra. Così finii in una terra per me straniera, conosciuta soltanto sui libri di scuola. E nelle aule scolastiche, se non avessi dovuto imbracciare il moschetto, mi sarei preparato a descriverla ai bambini dalle teste rapate a zero per i molti pidocchi e con i piedi scalzi per la povertà. La tradotta militare ci portò con un lungo viaggio fino a quella stazione da dove potevamo sentire il brontolio continuo dell’artiglieria e lo scoppio delle granate. Per intere notti non riuscii a chiudere occhio a causa di quell’aria pesante che mi circondava. L’eccitazione della battaglia vicina, la paura di un qualcosa di indefinito che sentivo più grande di me e dei miei diciannove anni, mi rendevano inquieto. Col tempo, tra le trincee e i morti, capii che era l’istinto di voler portare a casa la pelle. A tutti i costi. Era il terrore della morte alla quale la mia gioventù e la voglia di vivere si ribellavano. Ben presto mi sarei dovuto abituare al peggio, all’indifferenza per i corpi dilaniati, ai gas e alle sue vittime, ferme come se dormissero con ancora la sigaretta accesa tra le mani, ai topi sulla faccia, al fango e al freddo delle trincee, all’esaltazione folle prima dell’attacco per non lasciarmi invadere dal panico perché significava una morte sicura. Alla retorica di Patria per non impazzire in quell’inferno e sopravvivere. Alle lettere che da casa non sarebbero mai arrivate perché nessuno sapeva scrivere.

“Nonno, nonno, raccontami della guerra!”.

La guerra è la follia dell’uomo. E’ la tenebra degli occhi e del cuore.

Il 29 dicembre del 1916 ebbi il battesimo del fuoco. In un attimo tutto quello che era attorno a me divenne nero e polvere. E le cannonate assordanti sembrava facessero scoppiare le granate dentro di me, nella mia anima. Non feci in tempo a capire nulla e dal terrore urlavo e stringevo il fucile, l’unica cosa che non si muoveva, mentre la terra, la montagna e l’universo intero tremavano ed erano scossi sotto il cannoneggiamento. Fu come un terremoto infinito. Poi, improvviso, il silenzio. Mi ricordai di quello che mi avevano insegnato al campo di addestramento, che quello era il momento dell’assalto. Il più pericoloso, se si era ancora vivi dopo il bombardamento e le granate. Mi scossi da me stesso e come un pazzo balzai correndo verso le trincee nemiche, mentre vedevo cadere ai miei fianchi altri soldati che, pazzi come me dal terrore, avevano meccanicamente ricordato le stesse istruzioni. Non so cosa avvenne, non so se fu la Vergine delle Grazie a deviare i proiettili e le schegge diretti a me. So soltanto che mi ritrovai sconvolto e stremato in una trincea nemica piena di morti e lamenti, ma vivo. Del 17° Fanteria eravamo rimasti in pochi. Però venti metri di sassi erano stati conquistati. E così a Capodanno, dopo aver seppellito i morti, con gli austriaci potemmo scambiarci gli auguri. Perché eravamo più vicini. Per poi tornare a spararci addosso il giorno dopo.

Gli austriaci. Ce li avevano descritti enormi, barbari, violenti, che sgozzavano i prigionieri e i civili. L’ho dovuto credere fermamente, per non ragionare sull’assurdità di quello che stavo facendo: impiegare tutte le mie energie, la mia intelligenza, per ammazzare delle persone come me, che provavano le mie stesse sofferenze, le mie stesse gioie, le mie stesse paure. E loro di noi pensavano la stessa cosa. Per questo in combattimento e negli assalti non si volevano fare prigionieri. Per non pensare. Quella volta che sei tornato da Assisi insieme a Ingrid, la tua amica di Vienna, fui turbato. Vedevo i suoi occhi dolci mentre parlavate in inglese, ed era bello il vostro sorridere e cantare insieme. Allora, mi assalì il terrore che a suo nonno potessi avergli sparato io.

I pochi sopravvissuti fummo mandati nel 235° reggimento di Fanteria. Il 1917 era iniziato da poco, col freddo e la neve, la stanchezza di un anno di guerra si facevano sentire. Combattevo da soli quattro mesi ma era come se lo facessi da tutta la vita. Ormai conoscevo ogni rumore, sibilo, boato, scoppio. Sapevo d’istinto quando era il caso di appiattirsi sul fondo della trincea oppure continuare a mangiare comodamente il rancio nonostante il crepitare delle mitragliatrici o il fischiare dei colpi d’artiglieria. Avevo conosciuto dei commilitoni simpatici, poi diventati veri amici. Ma ho imparato quanto fragile e preziosa sia la vita. L’ho imparato quando l’ho vista perdere il confronto con la morte, sempre presente in ogni punto del campo, in ogni trincea, in ogni rumore. Violenta, rapida, inesorabile, cattiva. Piombava perfino dal cielo quando gli aerei mandavano giù grappoli di bombe o sventagliate di mitraglia. Ho imparato sul mio dolore che la vita vale troppo. Che non la si può scambiare con nessuna croce o medaglia. Quei ragazzi come me che non sono più tornati avevano voglia di fare serenate alle giovani dei loro paesi. Avevano voglia di fare l’amore. Forse i più fortunati, casa l’hanno rivista in una bara, altri hanno avuto un pezzo di terra tra i campi di battaglia, dove dormire il sonno eterno. Di troppi non si è più trovato nemmeno il niente. Nomi, visi, sguardi, voci, storie. Amicizie. Ne ho vissute di vere e belle. Profonde, perché tutti ci aggrappavamo alla vita in quell’aria che sapeva di tragedia e di fato e ce la raccontavamo, cercavamo di assaporarla come ci era possibile, ce la salvavamo nei modi più impensati. Tutto accadeva nella trincea, nell’assalto, negli incredibili momenti di tranquillità senza cannonate. Ma troppi amici ho amato e ho pianto. Ho dovuto dimenticare per non morire dentro. Adesso non ricordo i nomi, le storie, gli accenti. Ma ho impressi nell’anima i loro sguardi che speravano la vita, la pace, l’amore. Speravamo tutti di tornare alle nostre case, vivi. Si, vivi. Stavamo crescendo con la morte attorno e non ne potevamo più. Sentivamo che tutto questo era ingiusto. Avevamo bisogno di respirare la vita. Ma il ritorno non fu per tutti.

Quelle poche cose che ti ho raccontato della guerra, tu le ascoltavi in silenzio, con i tuoi occhi grandi. Eravamo seduti in tinello, accanto alla finestra, nell’ora della sera che confonde i colori e rende più chiari i ricordi.

Dopo il freddo dell’inverno, finii sotto la pioggia del Carso, anche se era giugno. Quella terra era così simile alle colline della mia infanzia, e nei rari momenti di tranquillità mi distendevo tra i sassi e, chiudendo gli occhi, sognavo di essere a casa. Ma bisognava tenere la testa sempre giù e spostarsi chinati tra i camminamenti e le trincee per non ricevere una pallottola tra gli occhi. Il Carso. Solo il nome incuteva paura, perché tutti sapevamo che quei sassi erano stati conquistati al prezzo di migliaia di morti. Ed erano solo sassi,. Terra nemmeno buona per piantarci gli ulivi, perché troppo fredda. Arrivò il giorno dell’assalto austriaco. Il nostro settore fu invaso e in poco tempo si giunse allo scontro frontale, tra reticolati sfondati e corpi caduti e mutilati. Ovunque erano scoppi e pallottole. Non so bene cosa accadde, ma in tutta quella confusione che sapeva di morte, cominciai a sparare anch’io. Le immagini si confondono nel fumo e nella polvere alzata dalle esplosioni. Nella ricordo della sera che sopraggiunse amica. Alla fine le armi tacquero. Contammo i vivi e sapemmo i morti. Il comandante del Battaglione era lì con noi. Non fu fatto prigioniero perché reagimmo con determinazione, così disse. Forse è vero. So soltanto che avanzai sparando su ogni cosa che si muoveva, e che quel gruppo di austriaci che contribuii a catturare, furono sorpresi e disarmati per puro caso. Le medaglie si conquistano anche così. Molto meglio che con una pallottola al cuore. Il giorno dei miei vent’anni fui promosso caporale. Ormai ero un veterano. Divenni caporal maggiore il giorno dopo il Natale dello stesso anno. Ma il 24 ottobre il fronte fu sconvolto dall’offensiva nemica. La ritirata divenne in poche ore una fuga. Scappai. Scappai come tutti in quella confusione di estenuanti ore di marcia. Eravamo tutti dei profughi, e i comandanti erano più disorientati di noi. Fu una lunga e penosa ritirata. Si oltrepassò il Piave. Mentre attraversavo quelle terre, pensavo ai morti che erano costate. All’inutilità della guerra si aggiungeva l’inutilità delle morti. Era tutto terribilmente assurdo, contrario all’uomo. Sentivo la vita che avevo dentro ribellarsi a tutto questo. Avrei voluto buttare via la divisa e il fucile e tornarmene a casa. E dormire. Dormire senza più le cannonate, la tensione a fior di pelle, i nervi a pezzi. Senza più dover pensare ad un amico conosciuto, volergli mandare i saluti e poi accorgermi che era già morto. Ma dovevo marciare se volevo vivere. Finalmente la ritirata di Caporetto finì. Il mio reggimento si fermò in Vallarsa. Avevamo di fronte gli austriaci, e profonde gole ci separavano. Ci spiavamo, ci osservavamo ed entrambi avevamo timore l’uno dell’altro. Ogni tanto qualche tiro di mortaio o di artiglieria ci ricordava che eravamo nemici. Ma anche loro erano stanchi della guerra. A Natale ci scambiammo ancora gli auguri e per una notte ci sentimmo fratelli. Poi ripresero i combattimenti. Con noi combatterono i francesi e gli inglesi e l’America era scesa in guerra contro l’Austria. Porracchio, Monte Pasubio, Monte Grappa. Nomi che non posso dimenticare. E non so dirti come sia riuscito a sopravvivere in quelle battaglie. Con il nuovo anno si incominciò a parlare di pace. Ed io finii nel 9° reparto d’assalto, tra gli arditi. Ci diedero la nuova divisa, con la giacca aperta per mostrare il petto al nemico. Feci così, tra incursioni nelle trincee nemiche e spericolate azioni notturne tra i reticolati elettrificati, gli ultimi due mesi di guerra. Non capivo perché si parlava di pace ed io ero in prima linea. Di nuovo a contare i morti, a raccogliere feriti, a ringraziare Dio per essere ancora vivo. Con quella camicia aperta sul petto da mostrare al nemico.

Ho letto più di una volta nei tuoi occhi la domanda che non hai mai osato fare. Se avevo mai ucciso. Si può forse non uccidere in guerra? Le guerre sono fatte per questo. Ma la morte peggiore l’abbiamo fatta noi scampati. Perché per sopravvivere abbiamo dovuto dimenticare il vero e ricordare il falso. Ricordare le medaglie, i discorsi pieni di parole vuote e inutili – ne ho fatti anch’io, lo sai -, le canzoni patriottiche. E dimenticare i fiumi di sangue, i corpi spappolati, le urla dei feriti, l’insopportabile silenzio del campo dopo la battaglia. La domanda l’hai tenuta dentro per pudore, per non ferirmi. Ma in guerra, per il solo fatto di essere andati, si ha già ucciso. Si è già uccisi. Un giorno, dopo una battaglia vicino al Monte Grappa, dovetti scappare e nella fuga persi il fucile. Mi ritrovai con un altro soldato, che però aveva il suo. Se fossi tornato al Reparto senza l’arma, sarei stato considerato un disertore e fucilato subito. Mentre cercavamo di non farci intercettare dagli austriaci, ci imbattemmo in due soldati italiani morti. Erano sotto a un arco di pietra. Mi feci coraggio e ad uno di essi strappai il fucile dalle mani che ancora lo stringevano. Avevo vissuto cento battaglie, ma quella volta fui terrorizzato. Appena gli toccai le mani, il freddo del suo corpo me lo sentii tutto addosso. Anch’io divenni di ghiaccio e cominciai a tremare. Il freddo della morte mi stava prendendo e lo sentivo penetrare nelle ossa, nel corpo, nell’anima. Diedi uno strattone al fucile e il viso del soldato morto si voltò di scatto per la violenza del mio gesto e mi fissò con i suoi occhi senza luce e la pelle cadaverica. Rimasi bloccato dal terrore e incominciai a tremare violentemente. Qualcosa di indescrivibile mi teneva inchiodato a quel fucile e a quel corpo che sembrava volesse abbracciarmi e portarmi via con se. Sembrava urlarmi tutta l’ingiustizia del suo essere morto e del mio essere vivo. Fu l’amico a strapparmi via da quel terribile abbraccio con la morte. E con il fucile stretto tra le mani, che per me significava la vita, tornai al campo e fui ancora una volta vivo. Cinquantadue anni dopo ho rivisto quel posto: l’arco era intatto e tua madre mi ha visto impallidire all’improvviso. Per me il soldato morto era ancora lì, io non lo avevo mai ringraziato.

Finalmente la guerra finì. Ed io ero vivo. Mi sembrava impossibile, dopo tante sofferenze e una così lunga convivenza con la morte, essere tutto intero e ancora sorridente. Come nella foto della mia brigata, senza più il fango addosso e con il viso rasato, mentre un soldato mostra il giornale con la scritta “Guglielmo II ha abdicato”. Era davvero tutto finito. Mi era passato addosso l’inferno ed io ero vivo. Potevo tornare a casa, abbracciare mio padre, fare il maestro.

Anche oggi è un giorno di primavera e tu non sei più un bambino. Vedo i tuoi occhi guardarmi e diventare lucidi mentre il medico si china sul mio corpo ormai stanco. Adesso dovrò combattere la mia ultima battaglia, quella che vincerò perdendola. Mi preparo per l’ultimo viaggio, per l’ultimo atto del vivere. Vedo dalla finestra il sole entrare e illuminare la stanza di una luce bella. Tu non parli e trattieni le lacrime. La medaglia di bronzo sarà tua, perché mi chiedevi sempre della guerra e guardavi le mie foto da soldato. Perché sei cambiato e hai capito che la cosa più importante è la pace. Senza dover fare una guerra.

La mia vita, allora, non è stata inutile e posso congedarmi da lei serenamente.

Se puoi, non mi dimenticare.

nonno Peppino

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