A caccia di polli (racconto dedicato all’amico Giulio Stilla)

di Antonio DEL VECCHIO

Ora che Giulio Stilla non c’è più , ecco un racconto a lui dedicato, riguardante la vita dei giovani e giovanissimi di un tempo, trascorsa in un fantomatico paese del meridione, dove lo stanziamento sociale, diversamente dal presente, era pressoché zero. Chi scrive l’ha redatto giusto un anno fa. Lo teneva in serbo per sottoporlo alla sua ambita e gradita attenzione. Ci teneva ad avere un suo giudizio, prima di pubblicarlo assieme a tanti altri racconti, rintracciati nella sua memoria che, come quella dell’amico, si era conservata nel corso degli anni pressoché inalterata.

Allora, stando insieme, di avventure ne sognavano tante, ma in pratica ne mettevano a segno ben poche, come d’altronde capitava a tanti loro coetanei ed affini. L’interessato non ha fatto in tempo per la subentrata sua e la di lui malattia. Perciò, ora la pubblica, col pensiero rivolto a lui che è in cielo, perché interceda, risvegliando nella sua mente  tanti altri piacevoli ricordi.

Chi scrive è sicuro che questo racconto gli piacerà e piacerà anche ai lettori di ieri e di oggi, liberandoli dal turbinio della vita moderna e dai social, dove i sentimenti si accendono e spengono, senza lasciare traccia, inghiottiti come sono dall’ermetismo più estremo, significato dall’alfabeto dei segni e delle supposizioni. Il racconto si intitola: “A caccia di polli”, a ricordare una sorta di arte venatoria, perdutasi nel tempo per i subentrati cambiamenti dell’economia e della storia”.

“Un tempo, in paese l’allevamento delle galline era praticato da tutti. Non c’era casa che non avesse davanti alla porta una capiente gabbia zeppa di volatili ovaioli o meno. Di solito quando ti avvicinavi, a salutarti per primo con il suo “chichirichì” era il gallo. I polli erano assai amati dalla gente. Lo erano più del cane, perché la sua carne a tavola costituiva una proteina a buon mercato, come i legumi, e di essi, in particolare, ceci, fagioli e cicerchie, perché la loro coltura era assai diffusa nella zona montana, dove ogni cittadino aveva il suo appezzamento di terra e il pagliaio in pietra. Costruzione, quest’ultima, di forma semiconica e di origine incerta, assai diffusa nel territorio in menzione.

Le anzidette gabbie, spesso erano rimediate alla meglio da vecchie tavole e raramente si ricorreva all’opera costosa del falegname. Altri preferivano, invece, allevare le galline all’aperto, Lo facevano un po’ tutti coloro che abitavano nelle periferie o che avevano un cortile o un fondo proprio nelle vicinanze della propria abitazione. Questo, accadeva di giorno, ma di sera, i volatili tornavano alla loro dimora, ossia alle apposite casette, costruite vicino casa. Tornavano volontariamente o richiamati appositamente dalla calda voce dalla padrona o da altri, che ne facevano la conta. Da questo punto di vista si può dire che il paese era circondato del tutto da galline in libera uscita.

Dire polli, significava dire anche tradizione. Il pollo locale è legato, infatti, al Ferragosto. Per il paese festa patronale in onore dell’Assunta e di San Rocco. Infatti, puntualmente lo si consuma tutt’ora per l’occasione a pranzo, al sugo con le orecchiette o al forno che le patate. Per cui alla domanda: “quando si mangia il pollo?.” La risposta da parte anche del cittadino più sprovveduto era scontata: “A mezzo-agosto!” (traduzione dialettale di ferragosto).

Di siffatta usanza, Ottavio ne conserva nella mente una prova inconfutabile. L’occasione di chiaro riscontro capitò nelle vicinanze dell’esame di ammissione al Liceo Classico, ossia in V ginnasio. Era un’estate torrida. Un certo giorno di fine giugno assieme al compagno di classe, Angiolino, concordarono di effettuare il ripasso delle lezioni preparatorie in ogni materia a casa sua, ubicata alla periferia del paese. Quest’ultima, seppure finita ex-novo, non ancora era abitata.

Per cui si presentava bene allo scopo. Nei giorni precedenti avevano effettuato le medesime ‘prove’ di riparazione nello studio del Palazzo di Angiolino, ubicato nel centro storico. Qui di solito li accudivano le sorelle, fornendo spesso a ciascuno degli ‘studiosi’ acqua fresca proveniente dal loro fornito frigorifero e leccornie varie.

L’interruzione procurava distrazione e scarso profitto. Per cui pensarono bene di spostarsi. Nel farlo, si rifornirono presso l’anzidetta abitazione di una grande quantità di ghiaccio, necessario per il raffreddamento e la tenuta dell’acqua da bere per diverse ore. E si avviarono alla nuova stazione.

A quel tempo nessuno aveva in casa un congelatore. Salvo il vino che veniva venduto da Mumù, dalla Cantiniera e da altri già raffreddato con la neve, il resto dei liquidi si beveva caldo o tutt’al più dopo averlo tenuto alcune ore in bottiglia, affondata dentro una cisterna o se si stava in campagna nel pozzo di acqua sorgiva. “Facciamo presto – disse Angiolino – altrimenti si fa tardi e avremo poco tempo per lo studio e la prova”. Di solito era l’Italiano, la materia ostica su cui l’amico arrancava maggiormente. E se ne accorse a sue spese.

Quel giorno avevano in programma Leopardi. Ottavio cominciò: “Dimmi quali sono i principali Canti di Leopardi?. E lui, ben ferrato sull’argomento, rispondeva di seguito: “Il passero solitario; l’Infinito; La quiete dopo la tempesta; A Silvia, ecc. Ed ora passiamo alla prosa: quali sono le più importanti operette morali? E l’altro: “I Cantici!. Dimmi, un titolo e una rappresentazione assai cara alla tradizione, sollecitò l’interrogante? E poi, preso dall’entusiasmo, aggiunse: “Per esempio, il ga…il ga…! L’altro, non afferrando il senso della domanda, si bloccò. Ad un certo punto, per solleticare la sua memoria, domandò ancora: “Che si mangia al Ferragosto?”.

E l’altro di botto: “Il galluccio? “No, il gallo– ripeté l’improvvisato professore – il gallo silvestre. Era questa la risposta esatta e voleva che lo dicesse lui per fissarlo bene in mente. E allora, ricominciò Ottavio, dopo una breve sosta  e cambio di discorso: Qual è il Cantico più importante di Leopardi?. E l’interrogato sicuro, rispose: il galluccio silvestre. Il dialogo si ripeté varie volte. Manco a farla posta, fu questa la domanda che  gli fecero all’esame. Ed Angiolino, imperturbabile rispose: “Il galluccio silvestre”. Ottavio  non l’ha più visto il compagno dall’Università. Si sa, comunque, che è diventato un avvocato famoso e vive lontano dal paese. L’altro, della persona e nel fatto, conserva sempre il gradito e scherzoso ricordo.

Come accennato, di polli in paese ce n’erano tanti in tutti i sensi. Ciò scatenò subito la corsa al ladro. Ossia a trovare la soluzione di come impossessarsi di essi, senza rimetterci la faccia e la dignità. Si formò una prima banda con a capo uno che riusciva a torcere letteralmente il collo ai volatili. Si individuò e si consultò subito il tipo disponibile ed esperto, ritenuto come quello femminile, uno dei mestieri più antichi del mondo: il ladro.

Si chiamava Francescuzzo. Manifestò per la prima volta la sua bravura – inclinazione, a casa di Ottavio, dove veniva a prepararsi per gli esami di riparazione di II media, a Settembre. Erano in una stanza del piano superiore, servita da un’ampia finestra di affaccio a Nord. Durante una pausa, l’alunno si affacciò, e disse: “Professore, ci facciamo due galline?”. Che dici? L’altro guardò e si rese conto che era vero. Di sotto c’erano due pollastre, che si contendevano uno dei tanti vermiciattoli che di solito affollavano le strade di terra battuta della periferia. Erano quelle della comare Rosinella, vicina di casa “No, no! – aggiunse Ottavio – Se si accorge la comare, sono guai! Le loro famiglie, per via del San Giovanni, si rispettavano da anni! “Ma dai, che vuoi che siano due polli” – rispose pronto l’altro.

Quindi, incuriosito, l’interlocutore continuò il suo dire: “Come farai? Se scendi, ti vedono!. L’interessata aveva l’uscio proprio accanto al suo e vicino c’era la ‘caiòla’ (la gabbia) con il resto delle galline. Strappato a forza l’assenso, il ‘giovinotto’ si mise subito all’opera, tirando fuori dalla tasca il suo arnese da scasso: una banale funicella con fava. La calò giù.

Una delle due galline abboccò e lui la tirò su bella e stecchita dal cappio. Alla stessa maniera presa l’altra. Si portò a casa entrambi i volatili. A sera, chiamò il suo ‘professore’ e gli fece assaggiare un pezzo di esso appena rosolato. Sapeva di zucchero! Per modo di dire. Fu il  primo bigliettino da visita di Francescuzzo per le avventure future in questo e in altri campi.

Qualche anno dopo, il ragazzo era diventato adolescente.  Era aitante e soprattutto bello. Le donne, se lo rubavano con gli occhi e non sapevano dire di no al suo fascino naturale, fatto di sensualità e di sentimento.

Sapeva cantare bene. In quel tempo era in voga la canzone “Una lacrima sul viso…” di Bobby Solo. Di essa era un interprete perfetto. Tant’è che la sera di Ferragosto di settant’anni fa la sua esibizione dal palco naturale del Palazzo fu accolta con un mare di lacrime vere dalla sottostante folla di spettatori in visibilio, in massima parte composta da giovani ed adolescenti di ambo i sessi.

Tra essi c’era anche Tiziana, una brunetta tutto cuore, di lui innamorata perdutamente, nonostante l’avversione della famiglia che per lei aspirava ad un partito migliore. Partito che in seguito trovò, dopo un amorazzo con un professore ben messo, abbandonando così per sempre il paese, mentre il suo Francescuzzo  nonostante la sua avvenenza non conquistò mai chi amava per davvero, accontentandosi di vivacchiare alla meglio, avventura dopo avventura sino alla fine. Nel novero c’era pure la giapponesina e una prosperosa straniera, che lo lascerà in tronco, non potendo più delle sue false promesse.

Un tardo pomeriggio si ritrovarono tutti al Pizzo dell’orto, compreso il menzionato capo della banda di cacciatori di polli, appena costituita. Formarono la squadra. Di essa, oltre ai suddetti, ne facevano parte l’aiutante del capo, Matteo ‘manolesta”, il ricettatore Santuccino , detto chiattone, e  il suo inseparabile compagno, Fazino, alias il  sammarchese.

All’amico intimo di Ottavio di nome  Fabrizio, detto occhio fino, per via della sua predisposizione alla regia,  fu affidato il compito di contro-spionaggio. Avevano persino predisposto una strategia. Gli anzidetti sarebbero rimasti  in vedetta sul bordo del pizzo, sia per vedere la gente che si avvicinava per il passeggio quotidiano sia per seguire le varie fasi del ratto. Si  misero subito all’opera.

La squadra scese giù dallo scosceso balzo e si dispose in fila distanziati l’uno dall’altro di alcuni metri. Avanzò il capo e in un baleno attaccò e torse il collo alla prima gallina, lanciandola seduta stante dietro un rovo o nell’erba alta dei pressi. E tirò avanti per un’altra gallina e poi a seguire gallucci e pollastre vari. Nel mentre il Chiattone non stava con le mani in mano, ma trascinandosi il suo sacco di iuta, prendeva dalle mani dei cercatori sunnominati i sanguinanti volatili.

Al termine della provvista, tutti si volatilizzarono, lasciando sul campo solo l’uomo con il sacco che, assicuratosi che in giro non c’era nessuno, provvide qualche tempo dopo a recapitare la merce alla mangiatoia (la casa dove la refurtiva veniva pulita e poi cotta e mangiata in varie salse e tipo di cotture).

Di solito era la non finita abitazione di Ottavio, posta all’estrema periferia del paese, detta appunto Montelepre. Una volta qui la comitiva patì un brutto scherzo. Mentre i cucinieri stavano spennando i polli, udirono bussare alla porta d’ingresso. Il padrone di casa scese giù per rendersi conto chi fosse. Semi-aprì una pacca della porta e vide che si trattava di un viso amico.

Era la sorella grande di uno degli improvvisati commensali, Incoronatella, che disse subito: “Vengono i Carabinieri!”.  Alle sue parole, seguirono subito i fatti. Mentre Ottavio chiacchierava con la nuova venuta, sopra si avvertivano una serie di rumori. La comitiva era intenta a fare sparire le tracce del presunto misfatto e nascondendosi a loro volta nei vari meandri della struttura. “Dimmi la verità – diceva l’uomo  alla visitatrice – ci cercano per davvero i Carabinieri o è uno scherzo di cattivo gusto che ci vuoi fare?.

Eppure c’è anche tuo fratello Cecchino. A seguito di queste insistenze , ella ad un certo punto sbottò con una fragorosa risata: “ L’hai presa!” (la burla) e andò via, continuando a ridere a crepapelle, com’era suo uso e costume ancor oggi. L’interlocutore risalì sopra e notò subito che non c’erano più, né uomini, né polli. Le penne però sì. L’episodio fu appreso e diffuso   con sottesa ilarità  tra gli amici stretti, e tutti risero di gusto: eravamo anche noi dei polli maldestri!

In seguito, farsi le galline, diventò un’abitudine. Cambiarono anche casa. La mangiatoia diventò quella di un vero maestro di cucina, zio Pietro. Per la comitiva era una sorta di papà sapiente. Faceva tutto da solo. Loro erano solo i commensali.

In seguito si trovò un modo più consono per procurarsi la merce a buon mercato e senza difficoltà alcuna. Un forestiero che viveva in paese, di professione postino, mise a disposizione la sua “Cinquecento” decapottabile. Con essa i giovani, assiepati dentro come sardine, giravano attorno al paese e si fermarono là dove razzolavano felici e contente le loro galline. Poi, allungando le mani dai finestrini o dal tetto scoperto, in poco tempo si faceva incetta della merce necessaria, e consegnata al loro cuciniere, per essere cotta e mangiata la sera stessa.

La rivalità tra loro era assai forte. Pertanto, una volta dopo aver fatto due polli, di cui uno in piazza, li consegnarono al loro protettore e cuciniere. Ottavio e “Occhiofino”, il regista, concordarono di non invitare a cena il janese e il chiattone, perché entrambi avrebbero sollevato delle aspre critiche contro il figlio maggiore del loro cuoco. Gli dissero: “Stasera prendiamo l’arrosto e l’andiamo a mangiare a casa tua”.

Intanto, il regista aveva parlato della medesima proposta a Francescuzzo. Così che la sera, prelevarono con un pretesto i due polli e se ne andarono a mangiarli, non si ricorda dove. Quando il regista tornò più tardi alla sua dimora, ebbe l’amara sorpresa: La mamma, facendo il conto delle sue galline, si accorse che ne mancava una, quella più grassa. “Oh ca!” – disse tra sé e sé il nostro burlone – quella che ho mangiato questa sera era, dunque, la mia gallina!? Insomma: chi la  fa, l’aspetta!

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