VIDEO|Sisma 1980, da San Marco in Lamis a Teora nel segno della solidarietà

Testimonianza di Angelo Ciavarella

Furono i radioamatori i primissimi a chiedere soccorsi per le popolazioni del’Irpinia. Quella zona d’Italia, nella serata di domenica 23 novembre nel 1980, era stata completamente tagliata fuori da ogni tipo di comunicazione convenzionale. Il sisma fu di una violenza inaudita, tanto che venne distintamente avvertito da gran parte alle popolazioni del sud e del centro Italia. Novanta secondi di paura.

Ho provato più volte a chiudere gli occhi e contare fino a novanta: un’eternità!

Le prime notizie parlavano di pochi paesi colpiti, tra cui Balvano, dove in una chiesa rimasero sotto le macerie, fra gli altri, molti bambini. Il lunedì 24 novembre 1980, nella tarda mattinata, a San Marco in Lamis cominciò la mobilitazione, con la notizia della partenza dell’ambulanza-centro mobile del nostro ospedale, una squadra di medici con chirurghi, anestesista, ortopedico e infermieri, anche se non si era ancora compresa l’effettiva portata dell’evento. I donatori di sangue furono chiamati a recarsi presso l’Ospedale locale per la donazione; nel frattempo presso le sedi AVIS e AGESCI fu allestito un centro di raccolta che vedeva impegnati volontari tra cui gli Scout di cui facevo parte. Si raccoglievano indumenti, viveri, coperte e quant’altro si riteneva potesse servire. Nella notte tra il lunedì 24 e il martedì 25 novembre da San Marco partì una prima squadra di soccorso, indirizzata a Teora di cui facevano parte alcuni nostri sanitari.

Facevano parte della squadra i miei due amici Gabriele e Raffaele, scout come me del gruppo sammarchese; portavano con loro generi di prima necessità, altre attrezzature mediche e ortopediche, oltre molti flaconi di sangue, raccolti in una sola serata. Furono caricati anche i primi pacchi preparati nel centro raccolta, con alcuni gruppi elettrogeni. Partirono intorno alla mezzanotte e, seppi poi, arrivarono intorno alle 6 del mattino: quello che trovarono me lo riferirono Gabriele e Raffaele. A Teora i soccorsi sammarchesi arrivarono prima dei militari. Le comunicazioni erano difficili … non vi erano nemmeno più le strade, erano quasi tutte interrotte da frane. Mi dissero che le difficoltà per arrivare in zona furono davvero tante.

A San Marco, intanto, nella giornata di martedì 25 novembre si viveva un’atmosfera strana: un frettoloso e angosciato via vai di gente nei pressi del centro di raccolta locale, ognuno desideroso di rendersi utile in qualche modo; nel pomeriggio ragazzi di ogni età si davano da fare per raccogliere tutto ciò che appariva utile. I contatti con la squadra a Teora si tenevano con i radioamatori che avevano un ponte radio a Borgo Celano, così i sammarchesi poterono comunicare e chiedere altro materiale sanitario e bare per i morti. Si parlava di un paese completamente distrutto, devastato. Nel pomeriggio di quel 25 novembre chiesi a mia madre: “Posso andare anche io?” ed ella rispose: “Guarda, lo so che hai già lo zaino pronto e lo hai nascosto; se ti dicessi di no?” ed io “Ci andrei lo stesso…”. Così diedi la mia disponibilità a partire con la seconda squadra che sarebbe partita nella notte.

In tarda serata fu avvertita materialmente da tutta la città di San Marco la portata di quell’evento: era già buio quando, oltre a vestiario, generi alimentari e attrezzi furono portate, passando per il corso principale della città, sette bare recuperate da un’impresa locale che le aveva messe a disposizione. Andarono a prenderle i ragazzini dell’AGESCI.

Al loro passaggio la gente ammutoliva, quasi fossero piene. Non era un film, non era uno scherzo: quel terremoto aveva fatto sul serio, aveva colpito con enorme violenza! In Irpinia c’era morte e distruzione!

Le televisioni non parlavano d’altro: il quadro che riferivano era impressionante nel numero di paesi colpiti e di vittime, non immaginando che quei dati erano destinati a salire sempre di più.

Alla sera io e Bruno eravamo pronti a partire; con noi altri scout, altri di altre organizzazioni cattoliche e i ragazzi del Circolo Varalli. Uno zaino, il sacco a pelo, una coperta, qualcosa da mangiare, la tenda.

Nei furgoni altri pacchi preparati nel centro raccolta da ragazzi e adulti, accorsi a dare una mano per l’organizzazione, picconi e pale. Dovevano servire a scavare, pensavamo. Partimmo anche noi verso la mezzanotte, con gli autisti incerti sul percorso da seguire: ricordo il presidente dell’AVIS, Tonino Guida, che consigliava di prendere l’autostrada per Napoli e uscire a Vallata e poi … E poi? “Poi vedete voi dove si può passare”.

Noi scout indossavamo la divisa dell’Associazione. Ci diedero delle fasce da tenere al braccio con la scritta AVIS (anche noi eravamo donatori), perché con quelle avremmo avuto accesso, dicevano, dappertutto.

Faceva tanto freddo quella sera.

Durante il viaggio cercammo di riposare nel furgone: avevamo tolto i sedili per fare più spazio, ci appoggiavamo alle lamiere gelide del mezzo. Eppure non chiudemmo occhio. Preoccupazione, strade interrotte da voragini che ci costringevano a tornare indietro e a tentare altre vie ci impedivano di riposare. Ma vi era altro, devo ammetterlo, che ci impediva di dormire: vi era una strana euforia, quella voglia strana di partecipazione all’evento, senza che ci rendessimo conto di ciò a cui ci apprestavamo. Forse ci sentivamo pure un po’ eroi, pensando, con le nostre pale ed i nostri picconi, di andare a salvare le vite umane. Presuntuosi noi!

Quel pensiero da “eroi” cominciò a svanire alle prime luci dell’alba, che ci svelarono la realtà. Una realtà cruda, di distruzione, distruzione totale. Una distruzione che, mi resi conto dopo, avrebbe lasciato un segno indelebile in quelle terre ed in quella gente, colpita negli affetti, nelle case, nelle proprie cose, ma soprattutto nella propria anima.

Strade inesistenti, casolari crollati, animali scampati che vagavano per le terre. Altre carcasse di animali giacevano a terra. Ai primi chiarori si intravedevano anche alcune persone, immobili, inebetiti, pietrificati, incapaci pure di alzare una mano per chiedere aiuto. Gente impaurita, incredula e rassegnata. Vivevano quel dramma già da oltre due giorni e tre notti.

Chissà cosa pensavano. Forse al loro passato, con disperazione, o forse al loro futuro, con angoscia. Chissà?

Dopo ore di viaggio giungemmo a Teora.

Teora aveva ancora il cartellone all’ingresso “Benvenuti a Teora”. Oltre il cartellone, di Teora, si vedeva ben poco in piedi.

I nostri mezzi si fermarono nel campo sportivo: una distesa di fango per via di una pioggia caduta abbondantemente e pressoché ininterrottamente. Non bastava il terremoto!

Erano giunti nella notte anche alcuni altri camion carichi di materiale vario e mezzi dell’Esercito. Erano tutti parcheggiati nei pressi di quello spiazzo che era diventato un centro operativo.

Quando scesi dal furgone la cosa che mi colpì subito fu il silenzio. Ed in silenzio cercammo di far stare in piedi la nostra tenda. Raffaele mi diceva della giornata di martedì: i medici si erano rivelati veramente preziosi per i primi feriti, egli stesso li aveva aiutati a fare alcune ingessature. Avevano portato anche qualcosa che si rivelò di grande aiuto: i gruppi elettrogeni.

Quella gente aveva passato le notti al freddo e al buio. Per la prima volta potevano usufruire di un briciolo di energia elettrica, nella notte fra il martedì ed il mercoledì.

***

Sopra il campo sportivo, verso il paese, ricordo come fosse ieri, c’era tanta nebbia che sembrava volesse evitarci di prendere improvvisamente visione della dura realtà di Teora.

Pertanto lo spettacolo, impensabile, si svelò a poco a poco, gradualmente, ai miei occhi e a quelli dei miei amici. Provai un senso di piccolezza e quasi di paura.

Ricordai in quel momento le parole dalla signora Lanzetta che animava il centro di raccolta a San Marco in Lamis: “Ragazzi, ma vi rendete conto di dove state andando? Vi rendete conto di cosa andate a fare? …”

Accanto a me c’erano Raffaele e Bruno. Gabriele non c’era, già dal giorno prima sapeva cosa era andato a fare … E noi, che potevamo fare?

Mentre ci guardavamo spaesati, piccolissimi di fronte alla grandezza della tragedia, qualcosa ci scosse gli animi. Una voce al megafono chiedeva se ci fossero volontari disposti ad andare alla Chiesa di San Vito, proprio sopra il campo sportivo, a cinquanta metri da noi. “A comporre le salme” diceva quella voce.

Eroi? Altro che eroi!!! Eravamo semplici ragazzini di 19 / 20 anni inchiodati dalla paura. Quel megafono ci inchiodava. Ci inchiodava alla nostra scelta di andare a “dare una mano”.

Adesso bisognava farlo davvero. E nella maniera più cruda, più dolorosa.

Avevamo paura: avevamo paura anche di guardarci negli occhi, per non rivelare all’amico quella frase che probabilmente pensavamo ma non dicevamo “Ci saranno pure altri, no?”.

Dopo pochi secondi il megafono ripeté l’appello..

Che fare?

Fu allora che decidemmo di andarci: per non doverci vergognare di noi stessi. Facendoci coraggio a vicenda ci affacciammo alla porta di ingresso della chiesa. Però dentro c’era già una persona che si dava da fare. Quella persona, il cui volto era coperto da una mascherina, si rivolse a noi dicendo con tono quasi di rimprovero: “Bè, che aspettate? Che siete venuti a fare?” Riconoscemmo la voce: era Gabriele!!! Ma non potevamo conoscerlo all’inizio perché la mascherina copriva il volto e la barba e non avevamo mai visto Gabriele con gli stivali ma sempre con i sandali anche nella neve.

Fu allora che entrammo, spinti dal richiamo di Gabriele. Posso dire oggi, che quei secondi, non soltanto a me, ma anche a chi era con me, segnarono un momento importante nelle nostre vite.

La prima cosa che ci colpì fu il corpicino di un bimbo tre o quattro anni, adagiato non per terra, ma sull’altare, quasi a volergli donare un posto di privilegio, visto che non aveva nemmeno potuto godersi il dono della vita. Gabriele impediva a chiunque di entrare nella chiesa, se non ai familiari per il riconoscimento delle salme. Niente giornalisti, niente foto, niente curiosità o roba del genere. Condividendo il suo pensiero e per rispetto ritengo sia giusto evitare di scendere nei particolari di quel lavoro che eravamo chiamati a fare: dirò soltanto che quella chiesa fungeva da obitorio. Gabriele teneva un elenco numerato con i nomi di quelli che venivano riconosciuti. Incidevamo con la punta di un chiodo quei nomi sul legno delle casse dopo averle chiuse con pochi chiodi vecchi.

Quando andammo via ne contavamo molti di più di cento.

In quella chiesa svolgemmo il nostro pietoso lavoro. Per quattro giorni. Con minime misure per la salvaguardia della nostra salute, la precarietà era estrema solo i guanti e le mascherine, facevamo un cambio frequentissimo dei nostri indumenti, ogni volta bruciati, “docce” frequenti con alcool puro e … lontano da tutti e da tutto. Si mangiava un po’ di latte con biscotti o pane duro al mattino e solo al calare della sera un altro boccone per evitare di portare le mani alla bocca (per fortuna nessuno di noi aveva il vizio del fumo. Il rischio di infezione era altissimo).

Quello che vivemmo e che provammo nella chiesa di San Vito di Teora è scritto nel nostro cuore e difficilmente potrà essere cancellato. Quei giorni per noi sono stati un salto di diversi gradini nella nostra crescita umana, religiosa, sociale e formativa.

In quei giorni non c’era possibilità di comunicare con le famiglie a San Marco. Oggi noi, genitori, siamo in pensiero per un ritardo dei nostri figli, o se non abbiamo loro notizie per soli pochi minuti. Chissà cosa devono aver provato i genitori di allora, i nostri genitori, nel sapere che eravamo nel cratere della tragedia senza avere nostre notizie. Certo fu un’esperienza che ci cambiò la vita. E credo che si debba essere riconoscenti anche a chi, superando la nostra incoscienza con la fiducia accordataci, vivendo giorni di ansia a causa della mancanza di notizie, ci ha lasciato andare.

Soltanto il venerdì 28, nel tardo pomeriggio, fu ripristinata una linea telefonica. Di questa si servivano a turno tutti coloro che ne avevano bisogno. Anche io e Raffaele, (con precedenza assoluta per via del nostro … lavoro potenzialmente contagioso!), fra il diluvio ed un freddo indescrivibile, telefonammo a casa: “Ciao Mà! Stiamo bene … il cattivo tempo? Ma no! Solo qualche pioggerellina ogni tanto e non fa nemmeno tanto freddo! Va tutto bene!”. Il dubbio se ci avessero creduto oppure no, non ci passava nemmeno per la testa.

Il sabato mattina arrivarono altri mezzi da San Marco in Lamis.

Erano venuti a prenderci! Arrivati a San Marco il dott. Lanzetta fu premuroso, sapeva quello che avevamo fatto anche perché i colleghi sanitari che erano stati a Teora avevano riferito i sacrifici e la pericolosità del nostro intervento. Ci portarono direttamente in Ospedale per esami ed accertamenti sanitari.

A malincuore avevamo lasciato quei posti. I nostri cuori erano tristi per quello che c’era intorno a noi; avevamo però la convinzione di essere cresciuti, più di quanto si possa crescere in una settimana. Avevamo dato un modesto contributo nell’anonimato e nella gratuità.

E’ vero, ci andammo con l’incoscienza dei ventenni.

Tornammo a casa con la maturazione di scelte importanti. Ma questo è un altro discorso.

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