A spasso con John Fante provando a “carezzare le età”
Racconto breve a margine della lettura del romanzo di John Fante, Aspetta primavera, Bandini.
di Tonino Daniele
Ripeteva ancora tra sé le parole della sua ultima requisitoria: <pena giusta o pena esemplare?> e nell’immagine il sorriso, dolce ed ammiccante stampato negli occhi cerulei, e garbatamente truccati, della giovane giudice al ricordo degli inquisitori medievali e dei loro trattati che lui, il sostituto procuratore della Repubblica, diceva, con orgoglio ed enfasi, di conservare nascosti nella sua biblioteca. Non poteva – però – permettersi altre distrazioni: a ciascun giorno basta la sua pena e quel giorno lui era già assalito dalla piena travolgente delle sue ansie. Arrivò in ufficio come al solito di buon mattino e con la mente rivolta a quegli spari esplosi in un poligono abbandonato e domandarsi se la condotta degli indagati rappresentasse una minaccia per l’incolumità pubblica o meno.
Si sedette già stanco sulla sedia, appoggiandosi indietro, pesantemente. La scrivania piena di fascicoli e scartoffie. Qualche foto ricordava la sua infanzia. Subito un caffè che prese al distributore automatico, disdegnando il rito del “caffè al bar” e nel sorseggiarlo riguardò tutto il suo ufficio quasi fosse la prima volta che vi entrasse. Gli occhi furono improvvisamente catturati da un vecchio calendario rimasto lì negli anni, quasi nascosto dagli scaffali. Volutamente lasciato dai precedenti colleghi… a futura memoria. Vi era un appunto, scritto in stampatello e senza correzioni, ormai sbiadito dal sole che in quella stanza faceva capolino tutto il giorno per tutti i giorni: <Abbiamo nelle nostre mani delle fiches che bisogna puntare sul rosso o sul nero, non possiamo scegliere entrambi i colori; gli errori sono nostri, altri ne subiscono gli esiti. Ed allora, a volte, ci dormiamo sopra, prendiamo tempo nella speranza che qualcuno o qualcosa ci suggerisca la mossa giusta: la cerchiamo nei codici, nelle leggi, senza accorgerci che la risposta è nell’animo dell’uomo. E’ l’animo umano che bisogna guadagnare, bisogna conquistarne la vetta, ma l’ascesa è difficoltosa, pericolosa, ci manca il fiato: oltre i falsipiani non andiamo>. Ripeté, a memoria, l’ultima frase: <ci manca il fiato: oltre i falsipiani non andiamo>; rimase – però – indifferente, imperturbabile a quelle parole: non era interessato ai massimi sistemi filosofici, avrebbe voluto solamente trovare una risposta a quegli spari e sperare che quella giornata finisse il prima possibile. Decise, comunque, che quel calendario l’indomani sarebbe sicuramente sparito.
Si trascinò alla scrivania e lesse svogliatamente gli atti d’indagine; fu costretto a rileggerli sperando d’imboccare la strada giusta, ma tutto inutilmente; inutile anche la lettura di massime giurisprudenziali e codici commentati.
Quel giorno tutto sembrava incerto ed insicuro. E al diavolo gli spari e i poligoni abbandonati! Non riuscì a vincere la tentazione di lanciare per aria quei fogli, quelle annotazioni di servizio redatte dai carabinieri intervenuti, fogli che vibrarono quasi in assenza di gravità tra i raggi del sole che inondavano l’intero ufficio, di quel sole furioso e giallo d’ira nel cielo. Nugoli di polvere gli danzavano attorno. Non gli sembrava vero, ma avvertì una smania di libertà: adesso poteva finalmente decidere di vivere quella giornata, di farla propria, di darle un senso.
Decise, così, di scambiare quattro chiacchiere con il personaggio dell’ultimo romanzo letto (ed ancora in bella vista nel suo ufficio); d’incontrarlo – magari – seduto su quella panchina desolata, tre isolati più avanti, in attesa, anche lui, di confidargli qualcosa. Sapere se quella primavera tanto attesa alla fine era riuscita a sciogliere il ghiaccio che induriva il campo da baseball, che non consentiva al padre di dare il filo ai mattoni. A chiedergli se quella primavera tanto attesa era riuscita a mitigare quell’aria gelida che impedisce di realizzare i sogni e che gela tutta la vita che ancora attende, che scorre, che macina. Domandargli se il padre fosse riuscito (e a quale prezzo) a sostituire quelle scarpe sfondate e rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta.
<Non scherzarci. So che anche tu lo fai>, disse l’interlocutore.
<Oh, è solo un ticchio!> rispose, leggermente stizzito, il sostituto procuratore.
<Forse. Anche per te, però, l’aria è gelida>, riprese.
<Tutti aspettano una primavera; sognano senza dormire>, rispose l’altro.
<Tranquillo, non può piovere sempre>.
<Non ci credo>.
<Credici. Fidati, se a dirtelo sono io>.
Intanto sentì un vociare concitato e sguaiato correre lungo i corridoi dell’ufficio e subito bussare alla sua porta: colpi fermi, decisi, quasi a sottolineare l’urgenza di avere un colloquio. D’istinto bloccò il respiro, si paralizzò, avvertì l’accelerazione del suo battito come quando a bussare alla sua stanza era la mamma per ricordargli dei compiti, a lui bimbo discolo e indisciplinato. Decise, però, di non aprire: chiunque fosse, sicuramente sarebbe tornato, probabilmente l’indomani o, nella peggiore delle ipotesi, dopo qualche minuto. Non avrebbe comunque aperto, non voleva assolutamente rinunciare a quel momento di libertà, faticosamente conquistato.
E, dopo un attimo di esitazione, riprese:
<Sei mai riuscito a comprarti degli abiti nuovi? >
<Sì, ma li ho buttati subito dopo. Servono a poco>.
<Ed hai mai sognato?>.
<Sempre, fino alla fine>.
Rimase per un po’ in silenzio, quasi a meditare l’ultima domanda: <Cosa avresti voluto diventare da grande? Un giocatore di baseball o un famoso scrittore?>.
<Scoprilo da te. A proposito, e tu?>.
<Io, cosa?>
<Lascia stare>.
La voce scomparve. L’ufficio ripiombò in un silenzio surreale, e lui rimase per alcuni minuti come in uno stato di ipnosi, estraniato. Non riuscì a capire come mai improvvisamente avvertì il bisogno di ascoltare della musica, quella della sua playlist. Ma certo! la prima delle canzoni gli ricordava proprio quel tale con cui aveva colloquiato: <…con gli amici cantiamo una nuova canzone, tanti anni e son qui ad aspettar primavera…tanti anni ed ancora in pallone…>.
Intanto, tutto attorno stagnava un silenzio diverso dal vociare precedente ed il sole, che iniziava a cedere all’orizzonte, imporporava la sua stanza di tristezza e solitudine. Era ora di andare. Non senza aver prima predisposto una richiesta di archiviazione per quegli spari diretti ad una sagoma di cartone: il fatto non costituisce reato. Punto! Chiuse a chiave la porta del suo ufficio, non voleva che altri si accorgessero del disordine e di quei fogli rimasti a tappezzare l’intero pavimento. Si accertò più volte che la stanza fosse chiusa. Nel corridoio, ormai deserto, risuonò solo la voce di un collega (quello di turno):
<Salve, Arturo>.
<Salve>.
E all’uscita, il piantone di guardia all’ingresso:
<Buonasera, Dottor Bandini>.
<Buonasera, a domani>.
Ed in macchina, sulla strada del ritorno verso casa, ancora le parole di quella canzone: <… Rimanere così annaspare nel niente/ custodire i ricordi, carezzare le età/ E’ uno stallo o un rifiuto crudele ed incosciente/ del diritto alla felicità…>, con il pensiero rivolto a quanti sono in attesa, forse come lui, di una primavera che tarda ad arrivare e – magari – a qualcosa che, scavando in fondo all’anima, si troverà. Ne era certo, Arturo Bandini, sostituto procuratore della Repubblica.
(Pubblicato su l’Attacco 10.11.2021)