I racconti quasi visionari di Mario Ciro Ciavarella conquistano il premio “Salva la tua lingua locale”

di Sergio D’AMARO

La mano lieve e ironica di Mario Ciro Ciavarella conquista il premio “Salva la tua lingua locale” sezione prosa edita dell’anno 2024 col suo nuovo libro In Arcadia. Ventiquattro visioni semi-esagerate del mio paese, San Marco in Lamis (ed. in proprio “La puscina dellu Priatorie”, 2024, pp. 186). Anche questo è un amarcord, ma in una forma che vuol essere diversa: non già la descrizione rapsodica di un mondo, ma la rievocazione in intenzione più esplicitamente narrativa di un tempo e delle sue atmosfere. Ecco perché questi testi si distinguono per un di più di elaborazione sentimentale e memoriale finendo per drammatizzare e far muovere sulla scena dei quadretti di vita paesana o di interni famigliari. Il libro si distingue anche perché è bilingue, con traduzione in italiano del testo in stretto dialetto garganico di San Marco in Lamis, giusto a restituire la freschezza del vernacolo e farne opera non secondaria di conservazione del patrimonio culturale.

Va a suo merito, dunque, quest’ultima sua fatica, offerta sempre con certo gusto umoristico che controbilancia e mette in fuga qualunque sospetto di nostalgia per i tempi andati di un mondo vissuto, fino a cinquant’anni fa, nel bel mezzo del ‘900 con forti resistenze rétro. “Ventiquattro visioni semi-esagerate del mio paese sottotitola ancora spiritosamente l’autore il suo libro, quasi a smorzare presunzioni letterarie e invece a mettere in campo un ben nutrito carniere di etnografo attento alla psicologia del suo pezzo di popolo pre-industriale. Sembra che Ciavarella, tra l’altro, abbia scelto l’anno giusto per questi racconti, essendosi materializzato sul tavolo delle novità sul suo paese un imponente catalogo fotografico. Un paese ci vuole…. tratto dal ricco archivio di immagini dell’ottico Giuseppe Bonfitto. È una combinazione virtuosa, quasi che il libro di Ciavarella trovi lo specchio per elaborare i suoi ricordi e restituire la temperatura di epoche ormai sottoponibili ad un confronto storico e antropologico.

Nel fondo dei racconti c’è un succo morale e un dialetto pieno della sua singolarità espressiva che Ciavarella ha saputo abbondantemente esperire anche nella sua collaterale attività di autore di esilaranti testi teatrali. Ritroviamo nelle sue nuove pagine addobbate in veloci flashback “visionari” la sostanza di una cultura e di una comunità abituata al poco di bene che le offriva la vita, molto spesso faticosa, difficile, piena di insidie e di disagi. Ed ecco, così, le strade, le piazze, i viali, le case di cui narra Ciavarella con la sua verve inventiva e gustosa, le tante scene infantili: i monelli col pallone di fortuna a rompere i vetri dei malcapitati; i bambini vestiti da santini per impetrare una grazia da sant’Antonio, Madonna Addolorata, san Michele, san Biagio, santa Rita; le donne sempre alle prese con le news del pettegolezzo o con il nero del lutto perenne o diventate maestre di vita. In realtà, lo sguardo dell’autore è affettuoso, quasi accarezzasse queste stinte fotografie della memoria rivelando certi umori lirici o elegiaci, quando è alle prese con la fattura del pane (alimento centrale della mensa contadina) in “Ce steva na vota lu pane” (C’era una volta il pane) e con le messi bionde di grano che aspettano la mietitura.

C’è posto anche per un sipario allargato su una modernità stentata: “La prima pustala” (Il primo pullman) riottosa a viaggi comodi su strade bitumate, il filmino del matrimonio (antenato dei video riproducibili oggi con click dei veloci smartphone), i viaggi in terza classe con treni lentissimi e torturanti sedili di legno, una precaria illuminazione molto sensibile alle intemperie e ancora priva di opportuni supporti tecnologici. Godibili, poi, in una veste più evocativa, “Li sonnera delli meninne” (I sogni dei piccoli) e la “Lettera che non é maje arrevate” (La lettera che non arrivò mai), quasi una parentesi elegiaca e drammatica sulla lontananza di chi era costretto all’emigrazione e vedeva frustrati i suoi legami affettivi. (Articolo pubblicato su l’Attacco del 17 dicembre 2024)

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