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L’intreccio tra “Verità” e “Giustizia” nelle parole di Leonardo Sciascia

di Tonino Daniele

Scrivere di Leonardo Sciascia e di giustizia insieme, significa percorrere strade tortuose e accidentate: reclamano passione, fermezza di giudizio e rigore scientifico; nessuna approssimazione, nessuna sciatteria, è consentita; pericolosamente inutili ulteriori cimenti. Dike, figlia di Temi, nasconde i suoi occhi per impedire agli uomini di penetrarne l’animo, trarne i misteri, scrutarne i sentimenti; è sufficiente che l’uomo ne ammiri il corpo, sinuoso e perfetto, ma gli occhi, gli occhi, quelli no! ci denudano e ci tradiscono, salvo essere capaci di corteggiarla e riuscire – così – ad incrociarne lo sguardo seducente e ammaliante, ma lei, a ragione, si concede solo a veri innamorati, uomini, appunto, come Sciascia, celebranti e vestali della Verità e delle verità, anche quelle più nascoste.

Per il maestro di Racalmuto (dove nacque cento anni fa), la Giustizia è prima di tutto un atto di fede. Dirà che tutto è legato al problema della giustizia: in cui si involge quello della verità, della libertà, della dignità umana e del rispetto tra uomo e uomo.

Parole impagabili e degne della più raffinata (e migliore) speculazione filosofica del diritto, quelle che il Presidente della Corte Suprema, Riches, rivolge all’ispettore Rogas ne Il Contesto (romanzo del 1971), dove la Giustizia diventa addirittura un mistero non opinabile, come quello della transustanziazione, ovvero della trasformazione – durante la celebrazione liturgica della messa – del vino e del pane nel corpo, sangue e anima di Cristo, sempre e comunque nonostante i limiti e le indegnità del sacerdote. <E così è un giudice quando celebre la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore, ma nel momento in cui celebra non più>. Ogni sentenza realizza (sempre e comunque) il diritto, rivelando il volto raggiante della Giustizia e consentendo, così, di ammirarne la bellezza.

Non che non ce l’avesse con i giudici, anzi; non risparmia severe reprimende: nella sua Nota alla manzoniana Storia della colonna infame (che impara a memoria da ragazzo, come racconterà lui stesso in una intervista), questi diventano addirittura, e consapevolmente, <burocrati del Male>, <onesti ed intelligenti quanto gli aguzzini di Rhomer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali>, non si accorge – però – di soffrire della stessa assordante solitudine nella ricerca della verità, da lui raccontata e mai rivelata, da quelli, sempre rivelata ed – a volte – erroneamente accertata. La Ragione – la “sua” Ragione – riesce a penetrare la verità senza sentenziarla più di quanto non riesca a fare il processo e le sue regole cavillose e spaventose che, per quanto facilmente e liberamente interpretabili, segnano percorsi obbligati; guai tracciarne di nuovi: l’impresa esige coraggio e qualità non comuni.

Leggendo Sciascia ci si accorge che il racconto della verità letteraria non incontra i limiti che soffre l’accertamento di quella processuale: la dichiarazione di responsabilità richiede prove certe – al di là di ogni ragionevole dubbio – e validamente acquisite, in mancanza vacilla la condanna dell’imputato: <io so, ma non ho le prove>, per dirla con le parole di un suo fraterno amico, Pier Paolo Paolini; al nostro, è sufficiente sapere. La prova della verità, per un giudice, segue percorsi rettilinei; per Sciascia, percorsi diagonali: ci si arriva anche (e soprattutto) attraverso quei sentimenti che entrano facilmente nelle parole e nelle storie raccontate e che, invece, restano (e devono restare) fuori dalle aule giudiziarie.

Ad un giudice perdona un unico difetto: <credere, fino a prova contraria e diretta evidenza, e anche all’evidenza guardando con indulgente giudizio>, che in ogni uomo il bene sovrasti il male e che questo insorga <come per distrazione, per un inciampo> ed elargisce un unico consiglio (che lui vede come un dovere) perché, alla fine, non si abbia alcun rimorso per gli errori commessi (quello dell’errore giudiziario rimane un altro nodo irrisolto ed inestirpabile per lo scrittore siciliano) e trovare consolazione nella certezza che nessuna sentenza gli ha mai sanguinato tra le mani, macchiando la sua toga, consunta dal tempo: avvicinarsi all’imputato <alla sua contorta e feroce umanità, alla sua follia>, renderselo – insomma – <penosamente visibile> (così in Porte aperte, romanzo del 1987).

In una intervista rilasciata pochi mesi prima della sua morte a Dauphine James per l’editore francese La Manufacture, Sciascia individua solo quattro parole che hanno segnato la sua vita: terra, pane, mistero e donne, cui aggiunge – subito dopo – giustizia (diventata un’autentica ossessione) e diritto; le prime legate all’emozione, le altre alla Ragione, quella Ragione che mai dovrebbe abbandonare quanti quotidianamente sono chiamati ad ammiccare quegli occhi sempre più seducenti della Giustizia nella convinzione di aver fatto il proprio dovere <di uomo e di giudice>.

(Pubblicato sul quotidiano l’Attacco il 19 marzo 2021)

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