Una serie, una storia: “Superstore”

C’era una volta “Happy Days”, uno straordinario telefilm degli anni ’70 che parlava dell’America degli anni ’50. Dove era quasi tutto perfetto: i ragazzi e le ragazze; Fonzie, il falso bullo da bar che riusciva a mettere in moto un jukebox con un pugno e tanti altri personaggi che ci ricordavano come era bella la vita tanti anni fa, con quel poco a disposizione. Un bar, una pista da ballo, un jukebox, qualche auto, il drive in. E basta. Il tutto ruotava intorno (e dentro) il bar “Arnold’s”, un locale di Milwaukee.

Invece i “giorni felici” di tanti altri giovani degli anni 2.000 si svolgono in un supermercato (Superstore) di St. Louis, denominato “Cloud 9”. La serie è straordinaria, con episodi che durano appena 20 minuti, quasi delle puntate bonsai, ma dove la concentrazione di comicità e spensieratezza è perfetta.

C’è la commessa quasi perfetta come Amy che lamenta spesso di non essere considerata come si dovrebbe, la giovane Cheyenne una ragazza incinta che è più ingenua che… incinta, il ragazzo di colore Garrett che vive la sua immobilità senza “recare danno a nessuno”, il capo Glenn che tutto fa tranne che dirigere a dovere il personale e tanti altri dipendenti che movimentano la vita commerciale di “Superstore”.

Quello che fa diventare un telefilm un caso, è soprattutto la sceneggiatura: è la scrittura che fa la differenza. Parte tutto da lì, soprattutto quando si parla di “situation comedy”, serie che si svolgono sempre nello stesso ambiente, come può essere un bar, una scuola o un supermercato come in questo caso. Sembrano quasi delle commedie teatrali: non ci sono decine di scene riprese in posti diversi, ma il posto è sempre uno solo chiuso dentro quattro mura.

Partendo da questa considerazione è chiaro che scrivere un telefilm di successo non è facile. In “Superstore” ciò che rende felice i dipendenti del market è soprattutto l’arredamento che sembra studiato in modo scientifico, e poi le situazioni che si intrecciano, soprattutto tra i dipendenti. Amori, piccoli tradimenti, scioperi, elezioni, promozioni e tutto ciò che succede fuori da quelle mura, lì dentro viene considerato e reso tutto più simpatico.

Per capire l’umanità non è necessario leggere libri di storia o sociologia: basta vedere (o vivere) in quel supermercato. Non c’è mai nulla di tragico in questa serie, anche se alcuni episodi fanno preludere a situazioni molti gravi. Il commercio degli articoli che sono lì dentro deve comunque essere espletato. Anche le gioie sono immediate e subito consumate, come la breve durata di ogni episodio.

Quello che risalta soprattutto è la bellezza e la velocità dei dialoghi: freschi, incisivi, e che vanno subito al problema da risolvere. Le parole in “Superstore” sembrano essere state studiate prima di essere pronunciate dai protagonisti. Non c’è verbosità, ma una eccezionale volontà nel dire quello che si deve e poi aspettare la risposta. Così come dovrebbe essere anche nella vita reale: poche parole e molti fatti.

Ecco perchè sono felici i giovani dipendenti di questo supermercato: sono chiusi dentro un mondo a parte che non esiste altrove. E da lì non li vedi mai uscire. Anche gli sceneggiatori hanno capito che spesso conviene rifugiarsi dentro qualcosa dove il resto del mondo non deve entrare!

Mario Ciro CIAVARELLA AURELIO

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