Terremoto Irpinia, il racconto toccante di Giuseppe Delle Vergini

Quella sera, il 23 novembre, la ricordo bene.

Ero con molti amici nella sede scout a fare baldoria, per una riunione informale, la confusione indescrivibile. Poi qualcosa ci fermò. Tutto tacque e per averlo già vissuto ci fu chiaro che era un terremoto. Ho visto le pareti degli edifici del vicolo – il caforchio di S. Antonio – oscillare in un silenzio per me diventato spettrale pur se tutti urlavamo e fuggivamo, mentre don Luigi Lallo usciva di corsa dalla porta minore della chiesa, quella dove c’era il fonte battesimale.

E sento chiaro nel ricorso il tintinnare della campanella della statua di un santo che suonava quasi a distesa per il dondolio causato da quella lunga e interminabile scossa. Tutti fuori, ma in piazza, in corso Matteotti la gente però camminava quasi normalmente, così sul viale. Mi decisi a tornare a casa e nel tragitto entrai nella Chiesa Madre. A terra calcinacci, frammenti di intonaco. Restò chiusa per anni. Sentii il TG1. Poche parole dette da un cinquantenne Emilio Fede.

Ma io sentivo che qualcosa di grave da qualche parte doveva esser accaduto. Troppo forte e lunga la scossa. Poi il dramma, la mobilitazione, la sede degli scout che si riempì di ogni cosa, bare comprese. Ero troppo giovane per partire, ma Teora fu un altro pezzo di San Marco che chi di noi era più grande poi conservò sempre nel cuore. Con Gabriele Tardio e tanti altri portare un po’ di speranza.

Ho scritto pochi versi, pensando ad allora, pensando a oggi.

Furono i morti

quarant’anni dopo

a consolare i vivi,

furono loro,

a cui un soffio

di vento

portò via

la vita.

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