Letteratura e poesia come atto di fede in Remo Fuiano

La raccolta postuma dei saggi. Nel segno della speranza

di Tonino DANIELE

Torna in mente, leggendo la raccolta (postuma) dei saggi di Remo Fuiano, Letteratura come Vita (1975 – 1976), (Edizioni del Rosone), la celebre espressione di Walt Whitman (quello di <O Capitano, mio Capitano!>, tanto per intenderci): <Amico, questo non è un libro, chi tocca un libro tocca un uomo>. Ebbene sì, queste riflessioni non sono di Remo Fuiano, ma sono Remo Fuiano: radiografie di una mente, di una vita. Pagine che sembrano abolire lo scarto tra l’uomo ed il suo pensiero perché ogni parola, ogni scritto, di questa raccolta (curata dal figlio Nicola) è stato (ed è) Remo Fuiano; pagine che hanno dato forma alle idee e consentono, oggi, dopo anni dalla sua morte, d’incontrarlo, d’immaginarlo, seduto dietro quella cattedra tanto amata, nell’atto d’incoraggiare i suoi allievi liceali a “rubare” le cose belle della vita, di suggerire loro, attraverso il sussurro della poesia, di cogliere l’attimo fuggente, di scoprire un mondo che va al di là, di vivere l’oltre, l’inimmaginabile, dove la poesia non è solo metrica, rime o figure retoriche. Dirà, nelle note scritte all’indomani della consegna del Premio Nobel per la letteratura ad Eugenio Montale, della certezza di un ritorno dell’uomo alla poesia: <tornerà ad essere il motivo di fondo di tutte le vicende umane. E la vita allora tornerà ad avere un senso e meriterà di essere vissuta>. Un vero e proprio atto di fede (e di speranza) quello di Remo Fuiano nella poesia e, in generale, nella letteratura.

Pagine, ritenute (a ragione) da Raffaele Cera, all’inizio della Prefazione, come un’ampia riflessione sugli aspetti e i valori della letteratura ma anche sulle ragioni che animano l’avventura difficile dell’uomo. Nel titolo della raccolta, la Letteratura (quella degli scrittori e non quella di chi scrive!) diventa una bussola che orienta, rappresentando non solo una chiave di accesso alla realtà della vita: un “sublime atto conoscitivo” direbbe il Gadda di Eros e Priapo, ma uno strumento che l’annuncia, arrivando addirittura a produrla. Gli occhi della letteratura – per Remo Fuiano – sono “fotografici”: riescono a cogliere l’istante in cui si prefigura la forma.

L’Autore si rivela non come un insegnante qualsiasi ma come il vero insegnante: lui sapeva benissimo che sarebbe servito a poco tramandare sterili nozioni senza suscitare quella curiosità, quel desiderio, quella voglia di andare oltre, oltre quel limite al di là del quale si riesce a cogliere il senso ultimo della letteratura: fermarsi prima, rimane un’attività inutile, anzi – a volte – addirittura dannosa e controproducente.

Ed allora, nelle pagine che ha dedicato a Rocco Scotellaro, è lui che sente per primo quel <forte richiamo fascinoso> di una voce e ad accorgersi che <qualcosa> lo spinge verso quel sindaco-poeta-scrittore, quel <qualcosa> che è riuscito, poi – con discrezione – ad offrire nel corso della sua vita di insegnate. Queste pagine diventano quasi una voce irresistibile: impossibile non cedere alla tentazione di <rivivere l’amara esperienza e la triste realtà del nostro Sud il cui orizzonte è sempre inquieto>; di (ri)leggere L’uva puttanella, l’opera che il Sindaco di Tricarico ha dedicato alla sua esperienza di studioso della cultura contadina, di militante socialista e forse anche di incompleto giurista, nella quale riserva pagine importanti alla sua amara vicenda giudiziaria che lo ha visto dapprima accusato di associazione a delinquere e truffa (per aver preso del denaro nell’ambito della distribuzione dei beni da parte del comune per conto delle Nazioni Unite), incarcerato e, poi, prosciolto e nelle quali, come un fine giurista, così declina il principio di uguaglianza scritto nella Costituzione: <Tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello>.

L’ultima nota, che dedica al ricordo della sua esperienza quale giudice popolare: <Aule di scuola, aule di tribunale: ovunque, sempre il proprio dovere. Testimoni di giustizia> è una riflessione che “fotografa” non la freddissima aula di un tribunale, ma la sofferenza nel <penetrare negli ambienti più miseri, conoscere miserie e bassezze; cogliere l’accorato tormento di un uomo, sentirne l’interno affanno, pronti tutti a vagliare, decisi a rendere, secondo coscienza e illuminati da Dio, giustizia agli uomini>, svelando il volto vendicativo di Dike nel difficile tentativo che il giudizio (umano) raggiunga non “una” verità qualunque, ma precisamente quella verità che possa dirsi anche “giusta” nella consapevolezza di non riuscire mai a trovare la sua esatta collocazione quando si debbono ricostruire i diritti delle persone.

Rimane l’immagine “laica” di un Pubblico Ministero che <ha in sé qualcosa che la stacca nettamente dal mondo circostante: conosce il male e suggerisce il rimedio più efficace>, che si scontra, però, con quella che lo vorrebbe all’inferno, ove questo esistesse. E l’immagine di un giudice <che trova motivo d’orgoglio nel trionfo della verità> che stride, invece, con un continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio che accompagna ogni sua decisione. Ma più di tutte nell’animo di Remo Fuiano si staglia la figura dell’imputato meritevole di compassione, e da lui sempre descritto come uomo per scorgerci <l’incerta fiammella del lucignolo fumigante, che la pena, invece, di spegnere, dovrebbe ravvivare>, come insegna Francesco Carnelutti nel suo Le Miserie del Processo Penale (1957).

Remo Fuiano ha voluto trasmetterci una storia di speranza, una speranza ferma, assidua, tenace, di quella che anche se viene meno rimane sempre, dando (insieme a tanti altri) lustro alla nostra terra e suggerendoci quanto sia auspicabile una rinascita anche “culturale” che non passi – però – attraverso interessi personali e commerciali.

 

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